Lavoro di Karma
(Leggi la prima parte) A marzo 2015, una settimana prima di tornare in Sardegna morì Guido, anche lui con la mia stessa malattia, una delle persone più importanti della mia vita. Durante le sue ultime settimane di vita, sfidai me stesso, affrontando ore interminabili di daimoku, mettendo alla prova il mio respiro e la mia forza fisica. Risuonano nella mia mente le parole di Nichiren “Credi profondamente in questo mandala. Nam Myo Ho Renge Kyo è come il ruggito di un leone. Quale malattia può quindi essere un ostacolo?” Fui convinto stoltamente di poter salvare in qualche modo Guido. Ma non fu così. La mia fede crollò, riconoscevo le potenzialità del buddismo ma pensai che non fosse fatto per me. Poi capii il concetto che ogni persona possa cambiare esclusivamente il proprio karma. Avevo sbagliato nel pensare di poter cambiare quello del mio amico Guido, trattando la pratica come una bacchetta magica.
Il karma è un altro concetto fondamentale per i praticanti buddisti. Si tratta di un bagaglio che ogni essere vivente si porta dietro da tempo immemore, frutto delle cause messe nel tempo e delle conseguenti azioni createsi. Il karma è un fardello che può essere alleggerito nel corso di una vita (ponendo delle cause positive) o possono servirne addirittura di più. La recitazione del daimoku in questo caso funge da catalizzatore per poter alleggerire il karma. Ad una causa positiva risponderà sempre un’azione altrettanto positiva.
A fine 2015 sono stati quasi 150 i giorni trascorsi in ospedale. Poter lavorare era diventato ormai un miraggio, costretto a stare a casa per fare ore e ore di cure giornaliere. Ma la dirigenza di Sky, l’azienda dove lavoravo, nonostante i quasi due anni di malattia e assenza da lavoro, mi disse che non solo il mio posto di lavoro era intoccabile, ma che avrei percepito comunque la somma totale dello stipendio fino a che non fossi stato meglio.
Il daimoku non è una bacchetta magica. È come se un praticante affinasse i sensi e riuscisse a imbeccare “il treno delle opportunità” facendosi sempre trovare pronto alla stazione e non perderlo mai neanche per un soffio.
Una nuova speranza?
A settembre cominciai a prendere il farmaco sperimentale studiato all’Istituto Europeo di ricerca sulla Fibrosi Cistica mentre c’era Silvia. Sarei dovuto entrare in una sperimentazione ufficiale, che stentava però ad iniziare, ma visti i miei peggioramenti di salute siamo riusciti a trovare il modo di prenderlo a pagamento, a 700 euro al mese. La ditta farmaceutica però decise di venirmi incontro decidendo di applicare 60% di sconto, facendo si che il costo non fosse più così proibitivo.
I risultati avuti su una cinquantina di pazienti molto giovani e poco compromessi dagli effetti della malattia erano stati molto promettenti e io ero il primo paziente che lo testava con un’importante compromissione polmonare.
Dopo un anno dall’inizio della sperimentazione le cose non stavano andando per il meglio. C’erano stati piccoli miglioramenti, ma piccoli non era di certo l’effetto sperato. Decisi di interrompere la sperimentazione. Lo spauracchio del trapianto si avvicinava sempre di più e questo venne confermato anche dai medici del Centro Fibrosi Cistica di Milano.
Verso il trapianto
Il trapianto bipolmonare è una tecnica chirurgica che offre un’ulteriore chance per aumentare le aspettative di vita nei malati di fibrosi cistica. Viene effettuato in una determinata finestra nella vita del paziente, ossia quando non sta troppo bene ma neanche troppo male. Il trapianto non è risolutivo, la fibrosi cistica nei polmoni è guarita ma non in tutto il resto del corpo e il paziente avrà a che fare anche con le problematiche dell’intervento (essendo un’operazione complessa che dura 12 ore) e del post trapianto (tra cui il rigetto dei nuovi organi).
Fare il trapianto avrebbe significato, oltre ai rischi che vi ho appena descritto, lasciare la Sardegna all’improvviso, ossia non appena fosse arrivata la chiamata dal Centro Trapianti. Inoltre avrei dovuto trascorrere il primo anno post trapianto lontano dalla Sardegna, perché richiesto dal Centro Trapianti lì a Milano.
Era proprio vero che tutto ciò che mi restava era affidarmi incondizionatamente al Gohonzon, la mia vita avrebbe saputo cosa fare. Silvia mi aveva sempre invitato a recitare con l’obiettivo della mia guarigione. Era sempre stato molto difficile mettermi completamente a nudo e affrontare questo scoglio, per me che ero nato con la fibrosi cistica, essendo quindi quasi una compagna di vita. Avevo sempre recitato con cuore sincero per la mia felicità, con o senza malattia. E questo aveva significato per me un perenne conflitto interiore.
E in questo momento così drammatico per me, risuonarono in testa delle parole dette da diverse praticanti “Dovresti essere grato alla malattia”. Non ho mai capito cosa significasse. Fino a gennaio 2016. (continua…)
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