Caregiver: letteralmente, datore di cura. Un termine che, nella sua inglese semplicità, nasconde un mondo sommerso di enormi soddisfazioni e grandi dolori. Già, perché i caregiver, oltre ad affrontare la sofferenza di avere un familiare – una madre, un figlio, un fratello – cronicamente malato, si trovano spesso a vivere una situazione di isolamento e esclusione sociale. Le assenze dal posto di lavoro che i caregiver devono fare spesso superano i tre giorni al mese garantiti dalla legge 104, il presenteismo (ovvero uno stato in cui la persona, seppur presente sul luogo di lavoro, è talmente assorbita dai suoi problemi da non essere produttiva o esserlo poco) è comune e spesso ci si trova a dover scegliere tra il cuore e l’occupazione. Molti caregiver, infatti, devono passare da un part-time a un full-time o addirittura smettere di lavorare. Con significative ripercussioni sulla propria soddisfazione personale, oltre che sulla situazione economica della famiglia.
Nella fibrosi cistica, poi, la situazione è del tutto peculiare. Oltre al peso affettivo, fisico e economico nella gestione di un bambino non del tutto autosufficiente, infatti, in fibrosi cistica si vive con il costante terrore di un peggioramento. Ogni respiro va pesato con attenzione, ogni grammo di cibo analizzato, ogni giornata scandita dai trattamenti: per preservare uno stato di salute accettabile, niente può essere lasciato al caso. E spesso nemmeno questo basta a evitare un peggioramento che arriva devastante e inaspettato: non è un caso, quindi, che il 38% dei genitori di ragazzi con la fibrosi cistica manifestino forti sintomi d’ansia e che il 31% dei padri e il 37% delle madri manifestino sintomi depressivi. Tali aspetti sono correlati con la funzionalità polmonare dei figli e risultano più elevati quando essa è sotto al 40%.
Il momento della diagnosi in particolare modo è estremamente critico: solitamente le diagnosi avvengono nei primi mesi (fino ai 19 tendenzialmente), con un iter in cui alla gioia della nascita si sostituisce ben presto uno stato di preoccupazione e ansia: il bambino non sta bene. Magari non cresce (il 66% delle diagnosi ha avuto come sintomo iniziale un problema nutrizionale) o magari sembra respirare male, avere più muco del solito e ammalarsi di più (21% delle diagnosi). Iniziano i viaggi tra gli ospedali, lo stress dell’essere rimbalzato tra un medico all’altro.Fino al test del sudore e alla rivelazione: signori, vostro figlio ha la fibrosi cistica. Qualcosa che nella maggior parte dei casi è completamente sconosciuta, e come tutto quello che è sconosciuto, assolutamente terrificante. Sentimenti come il senso di colpa verso il proprio stesso figlio, la paura per il futuro, il timore di non essere in grado di gestire la patologia e il carico cognitivo e emotivo che essa comporta, la disperazione nell’aver ricevuto una diagnosi per certi versi infausta, si sommano nei giovani genitori, molto spesso alla prima esperienza come tali.
Il caregiver pediatrico, infatti, prima di essere un prestatore di cura, è innanzitutto un genitore, con tutto il carico che questo ruolo si porta dietro: essere contemporaneamente infermieri e censori, accudire e sostenere, essere riferimenti emotivi anche quando si vorrebbe solo piangere. E soprattutto si deve accompagnare il proprio figlio verso l’indipendenza, insegnargli oltre all’arte anche il lavoro di vivere, fin dalla più tenera età, fidarsi di lui, mandarlo in gita scolastica sperando che faccia l’areosol e prenda gli enzimi. Lasciarlo insomma crescere e diventare da solo il caregiver di sé stesso, senza mai far mancare il proprio supporto. Supporto che, se da piccoli può essere dispensato senza limiti o quasi, in adolescenza diventa “scomodo” o “imbarazzante”:ai problemi della malattia si aggiunge il trambusto emotivo dell’adolescenza e il processo di individuazione e separazione dalla famiglia, reso ulteriormente complicato dai bisogni aggiuntivi del ragazzo con fibrosi cistica e dalle ansie della famiglia.
La vita di un genitore di un bambino con la fibrosi cistica è un continuo saliscendi:si passa da momenti di estrema gioia a momenti di estremo sconforto nel tempo di un respiro. Le uscite, le vacanze, le occasioni sociali vanno tagliate su misura in base alle possibilità del bambino e talvolta di molto ridotte, sia in termini di distanza da casa e durata dell’uscita, sia in termini di numero delle uscite. Il rischio di isolamento sociale, sia per il bambino che per la famiglia, è sempre in agguato. Un isolamento che non è solo fisico: spesso chi vive a contatto con una malattia cronica si sente solo anche in mezzo alle altre persone. Ci si sente non capiti, non accolti, non pienamente ascoltati. Il divario tra il proprio nucleo familiare, unito dalla sofferenza, e “gli altri”, gli altri che fanno l’aerosol una volta l’anno e pensano che la FEV1 sia un nuovo modello di navicella di Star Wars, è dolorosamente troppo ampio. Con il risultato che ci spesso ci si allontana dalle altre neo-mamme e neo-papà innamorati dei propri cuccioli e apparentemente senza preoccupazioni. Nel caso della fibrosi cistica, inoltre, un ulteriore elemento di complessità è dato dal fatto che i pazienti non possono incontrarsi: un’infezione incrociata può essere potenzialmente fatale. Anche se il mondo del web ha migliorato la situazione, permettendo la nascita di fortissimi legami a distanza, le famiglie non possono incontrarsi per una pizza o un aperitivo: sommando tutti questi fattori di rischio, l’isolamento è servito.
Secondo un modello di recente sviluppo, i caregiver attraverserebbero quattro fasi: la prima è la negazione e fuga, caratterizzata da uno stato di shock emotivo e affettivo*; segue una fase di iperattivazione, in cui si vive in una continua ansia e allarme e si è estremamente attenti ai bisogni fisici del proprio caro, ma a discapito di quelli affettivi e una fase di abnegazione, in cui ormai la routine di cura è seguita senza problemi, ma il ruolo di caregiver viene vissuto in maniera totalizzante e non lascia spazio ad altro. Infine, si dovrebbe giungere a una fase di bilanciamento, in cui, oltre a assolvere ai propri compiti di cura senza problemi, il caregiver ha integrato questo suo ruolo all’interno della sua identità, conciliandolo con le altre possibili, con notevoli benefici sullo stato psicologico suo in primis e in secondo luogo dell’intero sistema familiare.
A fronte dell’importanza di avere caregiver più sereni, integrati e realizzati come persone, l’interesse della società e degli Stati verso questa categoria è scarsa o nulla: la legge 104 stabilisce solo la possibilità di godere di tre giorni di permesso al mese per prendersi cura di un proprio familiare malato. Le proposte di agevolazione fiscale e di possibilità di Part-time e telelavoro per i caregiver, infatti, sono rimaste solo delle proposte. Il nuovo DDL depositato in Senato, a fronte di una certificazione delle competenze ai fini di un nuovo inserimento lavorativo dei caregiver, di detrazioni fiscali del 50% su una spesa massima di 10.000 euro annui per cura e assistenza e del riconoscimento di tre anni di contributi figurativi equiparati a quelli del lavoro domestico, impone che la nomina di caregiver sia attribuibile a un solo familiare e che l’assistito debba nominare il caregiver in prima persona: condizione che preclude del tutto l’accesso ai benefici ai caregiver pediatrici e pone le famiglie in uno stato di grossa difficoltà, laddove per la serenità e l’equilibrio familiare sarebbe ottimale se entrambi i genitori si occupassero del bambino.
La componente economica, fiscale e lavorativa non è però l’unico aspetto da tenere in considerazione: serve un lavoro che parta dal team di cura, che prenda in carico non il singolo ma l’intero nucleo familiare, aiutando i genitori a superare le fasi iniziali di shock e allarme, facendoli sentire accolti e compresi nei loro bisogni emotivi oltre che informativi e di cura, prevenendo il rischio di sentirsi inadeguati e incapaci a gestire la malattia.
Più tutele sul posto di lavoro, un sostegno economico, l’affiancamento almeno per alcune ore di personale specializzato nella cura, sportelli di ascolto psicologico e gruppi di supporto: tutto ciò può essere raggiunto solo grazie a uno sforzo congiunto dell’ente legislativo, del Sistema Sanitario Nazionale, delle regioni e dei singoli team di cura, per costruire un nuovo mondo per i caregiver e le loro famiglie. Un mondo in cui le famiglie colpite da una malattia cronica o una disabilità non siano lasciate sole.